Mi hanno chiesto di fare un post sulla interpretazione
“olistica” del progetto e dell’architettura. Il termine può sembrare ostico ma
il concetto retrostante è semplice, quotidiano. Basta pensare al tramonto: un
evento che si ripete tutti i giorni, in tutte le parti del mondo, ben spiegato
dalla scienza. Eppure quando il cielo è limpido sul mare, lo spettacolo diventa
emozionante il più delle volte. Un po’ di foschia può rovinarlo, le nubi
nasconderlo, ma quando i colori prendono il sopravvento, io resto rapito. Le
spiegazioni astronomiche e metereologiche dell’evento sono del tutto estranee e
separate dall’emozione trasmessa. Gli antichi popoli del Mediterraneo credevano
che la terra fosse ferma e che il sole le girasse intorno. L’emozione di un
tramonto poteva essere la stessa di oggi. Conta la disposizione dell’animo di
chi si pone di fronte al sole che si tuffa nel mare.
L’incontro con una architettura, anche se preparato
dall’esame della documentazione fotografica, può risultare entusiasmante o
deludente, confermare le attese o sorprenderci. Quando circa venti anni fa sono
andato a visitare il palazzo di Frank Ghery a Praga (a volte chiamato Giger e Fred) mi sono trovato di fronte
ad una realtà architettonica e urbana del tutto imprevista. Ciò che le pubblicazioni
sull’opera non lasciavano intravvedere erano le relazioni con l’intorno.
La posizione d’angolo che chiude un isolato fatto di edifici déco. Il fiume che riflette e sdoppia l’immagine. Insomma un emozione forte che la geometria dell’oggetto o l’estetica dell’architetto non bastano a motivare.
La posizione d’angolo che chiude un isolato fatto di edifici déco. Il fiume che riflette e sdoppia l’immagine. Insomma un emozione forte che la geometria dell’oggetto o l’estetica dell’architetto non bastano a motivare.
Per raggiungere in macchina l’opera di Ghery ho avuto
bisogno di chiedere indicazioni stradali ai passanti che, ovviamente, non
avevano mai sentito il nome dell’architetto o del palazzo. Per farmi capire da un
signore avanti con gli anni ho specificato che stavo cercando una costruzione
pazza, strana, con una protuberanza tondeggiante in vetro. Il volto di questo
signore si è illuminato, quando ha capito l’indicazione che stavo chiedendo, e
si è messo a ridere sia perché riteneva l’opera di Ghery del tutto insensata
sia perché un italiano aveva fatto tanti chilometri per visitarla. Morale: lui
e io partivamo da punti di vista diversi e di fronte allo stesso evento
reagivamo in modi completamente diversi. L’emozione dipende tanto dall’evento
quanto dall’osservatore. Se l’evento è l’architettura, intenzioni progettuali
comprese, gli osservatori, i passanti e gli utenti offrono un’ampia gamma di
reazioni possibili, dal molto positivo al molto negativo.
Un altro confronto tra interpretazioni diverse dello stesso
manufatto. Quaranta anni fa stavamo visitando il quartiere di Park Hill a
Sheffield in Inghilterra (http://en.wikipedia.org/wiki/Park_Hill,_Sheffield).
Giornata domenicale fredda e grigia nonostante fosse piena estate. Stavamo
commentando molto positivamente i grandi ballatoi che raccordavano gli alloggi
duplex, immaginando che i bambini avrebbero potuto giocarci e gli adulti
mettersi a chiacchierare. Abbiamo involontariamente fatto un po’ di chiasso e
un paio di inquilini sono usciti dalle loro case. Ci siamo scusati e abbiamo
fatto loro i complimenti per l’edificio che ci sembrava molto interessante. Ancora
una volta è stato un pensionato a esprimere seri dubbi sulle nostre
considerazioni. Secondo lui case così piccole non potevano essere apprezzate
tanto. Ci ha invitato a entrare in casa. La scala era effettivamente angusta,
le stanze piccolissime, soggiorno compreso. Aveva ragione lui. L’impressione da
fuori era molto diversa di quella da dentro. I punti di vista sono nati prima
dell’evento e resteranno anche dopo la fine dell’evento stesso con poche
variazioni, salvo casi unici e rari. Ma anche i punti di vista si evolvono nel
tempo seguendo processi per buona parte casuali o imprevedibili.
La domanda per un progettista diventa: le emozioni hanno
bisogno di basi solide? Oppure la reazione emotiva resta separata dalla
razionalità? Un tramonto ha bisogno della rifrazione dei raggi solari quando
attraversano l’atmosfera terrestre, ha bisogno dei movimenti di rotazione e
rivoluzione, dell’inclinazione dell’asse terrestre e delle differenze di
temperatura. Ginger e Fred ha bisogno
di una vetrata a doppia curvatura fatta con vetri piani raccordati ai montanti
metallici da viti e bulloni adattati artigianalmente, ha bisogno di imbotti di
lamiera zincata inseriti in muri curvilinei scalettati in aggetto, eccetera.
Ciascuno di questi elementi ha un suo significato e offre un suo contributo nel
raggiungere il risultato finale. Ma c’è sempre qualcos’altro. Difficile
separare l’immagine di un tramonto dalla consapevolezza che il sole rappresenta
il motore della vita sulla terra: principio riconosciuto e accettato in tutte
le culture umane (e forse anche animali) dalla notte dei tempi. Un dipinto, per
quanto importante e amato, ha una rilevanza più episodica e si rivolge a una
platea più limitata. Sia i grandiosi e coinvolgenti spettacoli offerti dalla
natura, sia i piccoli episodi del mondo minerale, vegetale e animale legano in
un unicum cause ed effetti, razionalità e emozione. Una eruzione vulcanica
spaventa e coinvolge perché mostra la incontrollabile forza della natura. Il
fungo (meglio se commestibile) che emerge tra le foglie morte del sottobosco
rivela una vitalità altrimenti insospettabile.
Gli eventi generati dall’uomo invece vanno dalla pura
materialità alla pura emozione, offrendo una vasta gamma di combinazioni. La
storia delle civiltà umane ha collezionato le piramidi egizie e gli acquedotti
della campagna romana, le pitture rupestri pre-agricole e gli utensili
scheggiati in ossidiana, le fortezze di Francesco Di Giorgio Martini e La vocazione di S. Matteo di
Michelangelo Merisi da Caravaggio, i teatri di Epidauro o Efeso e gli
agglomerati medievali di case celtiche, il paesaggio agricolo rinascimentale
dalla Toscana alle Marche e le composizioni floreali secondo i dettami
dell’ikebana giapponese. I bisogni primari, come fame, sete, freddo o sesso,
richiedono di essere soddisfatti indipendentemente dalle emozioni che possono
suscitare. All’altro estremo la musica che non risponde ad alcun principio di
necessità: tutte le società, anche le più povere e primitive, da sempre
cantano, suonano e danzano. L’arte e gli artisti scelgono (o pretendono di
scegliere) dove collocarsi tra il massimo della razionalità o dell’impegno
sociale e il massimo dell’emozione o della pura spiritualità. Non a caso
l’accezione originaria del termine arte
indicava, fino all’inizio del novecento, la capacità di saper fare bene le cose
e artista era colui che applicava
l’arte. Poi con le avanguardie artistiche del novecento le cose si sono
complicate e i significati si sono mescolati.
Per quasi quattro secoli, dall’inizio del XVII alla fine del
XX, la cultura progettuale è stata dominata da due miti indiscutibili:
specializzazione e efficienza. Chiunque avesse osato mettere in discussione il
mito sarebbe stato espulso dalla comunità dei sapienti. L’industrializzazione e
il modernismo suo figlio hanno creduto e applicato ciecamente il principio
della scomposizione della complessità per trovare soluzione ai singoli problemi
costitutivi. Il progetto di architettura si è misurato con la piena e totale
razionalità (ma razionalità di chi?). Dal lato della sua utilità sociale ha
prodotto una ampia gamma di tipologie abitative “adatte all’uomo moderno”. Dal lato
della produzione ha perseguito produttività e efficienza economica. Alla fine
del secolo scorso è progressivamente emersa una consapevolezza postindustriale
che ha rivalutato il principio dell’integrazione prima e della ridondanza poi.
Integrazione tra le parti come rispetto della complessità. Ridondanza come base
dell’evoluzione e dell’adattamento.
Per fortuna ci sono quelli che vanno contro corrente per
istinto. Primo fra tutti Antoni Gaudí con le sue mattonelle rotte a coprire
superfici ricurve, con la pietra usata come il legno o come il ferro, con una
manualità dell’esecuzione esibita fino al narcisismo. Mentre gli altri
pensavano a ridurre i costi, a razionalizzare e semplificare, lui inseguiva il
suo intuito e gli stimoli che potevano fornire una conchiglia, una foglia e un
osso. Allora la panchina che segue la linea dell’onda sull’arenile, il pilastro
inclinato con la pietra che si avvita intorno ad esso, i materiali rigidi e
pesanti che si modellano come se fossero morbidi e pastosi. Tra i disegni o i
modelli di Gaudí e le opere realizzate la distanza è notevole. Erano appunti,
punti di partenza di un processo creativo che per la massima parte era
assegnato alla costruzione, alla genesi materica delle parti e del tutto. Il
progetto non cercava minimamente di disaggregare la complessità. Si limitava a
evocarla.
I contemporanei di Gaudì al di fuori di Barcellona e il Movimento
Moderno hanno preso le distanze dal fenomeno relegando parco e cappella Güell
tra le curiosità del folclore locale. Recentemente il suo esempio trova un
numero di simpatizzanti e discepoli in continua crescita. Sto parlando delle
esperienze di autocostruzione che in tutto il mondo rivendicano un diverso
rapporto con la natura e con il progetto.
Quando prendi i contenitori alimentari per produrre gusci
continui nervati destinati ad ospitare il mercatino scolastico di fine anno,
oppure immergi degli scarti di tessuto nel cemento liquido per appenderlo a dei
cavi tesi, entri in una logica ricca di implicazioni. Puoi fare le prove da
solo, a casa tua, ma se l’oggetto deve raggiungere dimensioni abitabili devi
lavorare in gruppo. La manualità di ognuno deve coordinarsi e interagire con
quella degli altri. Il comportamento strutturale dell’oggetto cambierà con le
dimensioni e dovrà trovare un suo punto di equilibrio finale. I materiali, o
meglio le risorse rinnovabili, necessari alla costruzione, dovranno adattarsi
alla manualità dei partecipanti e all’organizzazione dell’iniziativa. Insomma
tra il punto di partenza ovvero l’intuizione, e il punto di arrivo ovvero
l’opera, c’è la stretta integrazione tra progetto e costruzione. Più olistico
di così è proprio difficile. Forse coloro che guardano l’esperienza di
autocostruzione da fuori e da lontano, non capiscono quale emozione si possa
provare. Ma quanti sono stati coinvolti direttamente o indirettamente nell’iniziativa
hanno provato in prima persona l’entusiasmo del partecipare, la soddisfazione
nel vedere il crescere e il concludersi dell’opera, la meraviglia per la
leggerezza di strutture basate sulla tensione e tanto altro.
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