29 gen 2013

Un punto di vista sull’architettura e sul progetto

Mi hanno chiesto di fare un post sulla interpretazione “olistica” del progetto e dell’architettura. Il termine può sembrare ostico ma il concetto retrostante è semplice, quotidiano. Basta pensare al tramonto: un evento che si ripete tutti i giorni, in tutte le parti del mondo, ben spiegato dalla scienza. Eppure quando il cielo è limpido sul mare, lo spettacolo diventa emozionante il più delle volte. Un po’ di foschia può rovinarlo, le nubi nasconderlo, ma quando i colori prendono il sopravvento, io resto rapito. Le spiegazioni astronomiche e metereologiche dell’evento sono del tutto estranee e separate dall’emozione trasmessa. Gli antichi popoli del Mediterraneo credevano che la terra fosse ferma e che il sole le girasse intorno. L’emozione di un tramonto poteva essere la stessa di oggi. Conta la disposizione dell’animo di chi si pone di fronte al sole che si tuffa nel mare.

L’incontro con una architettura, anche se preparato dall’esame della documentazione fotografica, può risultare entusiasmante o deludente, confermare le attese o sorprenderci. Quando circa venti anni fa sono andato a visitare il palazzo di Frank Ghery a Praga (a volte chiamato Giger e Fred) mi sono trovato di fronte ad una realtà architettonica e urbana del tutto imprevista. Ciò che le pubblicazioni sull’opera non lasciavano intravvedere erano le relazioni con l’intorno.
La posizione d’angolo che chiude un isolato fatto di edifici déco. Il fiume che riflette e sdoppia l’immagine. Insomma un emozione forte che la geometria dell’oggetto o l’estetica dell’architetto non bastano a motivare.

Per raggiungere in macchina l’opera di Ghery ho avuto bisogno di chiedere indicazioni stradali ai passanti che, ovviamente, non avevano mai sentito il nome dell’architetto o del palazzo. Per farmi capire da un signore avanti con gli anni ho specificato che stavo cercando una costruzione pazza, strana, con una protuberanza tondeggiante in vetro. Il volto di questo signore si è illuminato, quando ha capito l’indicazione che stavo chiedendo, e si è messo a ridere sia perché riteneva l’opera di Ghery del tutto insensata sia perché un italiano aveva fatto tanti chilometri per visitarla. Morale: lui e io partivamo da punti di vista diversi e di fronte allo stesso evento reagivamo in modi completamente diversi. L’emozione dipende tanto dall’evento quanto dall’osservatore. Se l’evento è l’architettura, intenzioni progettuali comprese, gli osservatori, i passanti e gli utenti offrono un’ampia gamma di reazioni possibili, dal molto positivo al molto negativo.
Un altro confronto tra interpretazioni diverse dello stesso manufatto. Quaranta anni fa stavamo visitando il quartiere di Park Hill a Sheffield in Inghilterra (http://en.wikipedia.org/wiki/Park_Hill,_Sheffield). Giornata domenicale fredda e grigia nonostante fosse piena estate. Stavamo commentando molto positivamente i grandi ballatoi che raccordavano gli alloggi duplex, immaginando che i bambini avrebbero potuto giocarci e gli adulti mettersi a chiacchierare. Abbiamo involontariamente fatto un po’ di chiasso e un paio di inquilini sono usciti dalle loro case. Ci siamo scusati e abbiamo fatto loro i complimenti per l’edificio che ci sembrava molto interessante. Ancora una volta è stato un pensionato a esprimere seri dubbi sulle nostre considerazioni. Secondo lui case così piccole non potevano essere apprezzate tanto. Ci ha invitato a entrare in casa. La scala era effettivamente angusta, le stanze piccolissime, soggiorno compreso. Aveva ragione lui. L’impressione da fuori era molto diversa di quella da dentro. I punti di vista sono nati prima dell’evento e resteranno anche dopo la fine dell’evento stesso con poche variazioni, salvo casi unici e rari. Ma anche i punti di vista si evolvono nel tempo seguendo processi per buona parte casuali o imprevedibili.
La domanda per un progettista diventa: le emozioni hanno bisogno di basi solide? Oppure la reazione emotiva resta separata dalla razionalità? Un tramonto ha bisogno della rifrazione dei raggi solari quando attraversano l’atmosfera terrestre, ha bisogno dei movimenti di rotazione e rivoluzione, dell’inclinazione dell’asse terrestre e delle differenze di temperatura. Ginger e Fred ha bisogno di una vetrata a doppia curvatura fatta con vetri piani raccordati ai montanti metallici da viti e bulloni adattati artigianalmente, ha bisogno di imbotti di lamiera zincata inseriti in muri curvilinei scalettati in aggetto, eccetera. Ciascuno di questi elementi ha un suo significato e offre un suo contributo nel raggiungere il risultato finale. Ma c’è sempre qualcos’altro. Difficile separare l’immagine di un tramonto dalla consapevolezza che il sole rappresenta il motore della vita sulla terra: principio riconosciuto e accettato in tutte le culture umane (e forse anche animali) dalla notte dei tempi. Un dipinto, per quanto importante e amato, ha una rilevanza più episodica e si rivolge a una platea più limitata. Sia i grandiosi e coinvolgenti spettacoli offerti dalla natura, sia i piccoli episodi del mondo minerale, vegetale e animale legano in un unicum cause ed effetti, razionalità e emozione. Una eruzione vulcanica spaventa e coinvolge perché mostra la incontrollabile forza della natura. Il fungo (meglio se commestibile) che emerge tra le foglie morte del sottobosco rivela una vitalità altrimenti insospettabile.

Gli eventi generati dall’uomo invece vanno dalla pura materialità alla pura emozione, offrendo una vasta gamma di combinazioni. La storia delle civiltà umane ha collezionato le piramidi egizie e gli acquedotti della campagna romana, le pitture rupestri pre-agricole e gli utensili scheggiati in ossidiana, le fortezze di Francesco Di Giorgio Martini e La vocazione di S. Matteo di Michelangelo Merisi da Caravaggio, i teatri di Epidauro o Efeso e gli agglomerati medievali di case celtiche, il paesaggio agricolo rinascimentale dalla Toscana alle Marche e le composizioni floreali secondo i dettami dell’ikebana giapponese. I bisogni primari, come fame, sete, freddo o sesso, richiedono di essere soddisfatti indipendentemente dalle emozioni che possono suscitare. All’altro estremo la musica che non risponde ad alcun principio di necessità: tutte le società, anche le più povere e primitive, da sempre cantano, suonano e danzano. L’arte e gli artisti scelgono (o pretendono di scegliere) dove collocarsi tra il massimo della razionalità o dell’impegno sociale e il massimo dell’emozione o della pura spiritualità. Non a caso l’accezione originaria del termine arte indicava, fino all’inizio del novecento, la capacità di saper fare bene le cose e artista era colui che applicava l’arte. Poi con le avanguardie artistiche del novecento le cose si sono complicate e i significati si sono mescolati.
Per quasi quattro secoli, dall’inizio del XVII alla fine del XX, la cultura progettuale è stata dominata da due miti indiscutibili: specializzazione e efficienza. Chiunque avesse osato mettere in discussione il mito sarebbe stato espulso dalla comunità dei sapienti. L’industrializzazione e il modernismo suo figlio hanno creduto e applicato ciecamente il principio della scomposizione della complessità per trovare soluzione ai singoli problemi costitutivi. Il progetto di architettura si è misurato con la piena e totale razionalità (ma razionalità di chi?). Dal lato della sua utilità sociale ha prodotto una ampia gamma di tipologie abitative “adatte all’uomo moderno”. Dal lato della produzione ha perseguito produttività e efficienza economica. Alla fine del secolo scorso è progressivamente emersa una consapevolezza postindustriale che ha rivalutato il principio dell’integrazione prima e della ridondanza poi. Integrazione tra le parti come rispetto della complessità. Ridondanza come base dell’evoluzione e dell’adattamento.

Per fortuna ci sono quelli che vanno contro corrente per istinto. Primo fra tutti Antoni Gaudí con le sue mattonelle rotte a coprire superfici ricurve, con la pietra usata come il legno o come il ferro, con una manualità dell’esecuzione esibita fino al narcisismo. Mentre gli altri pensavano a ridurre i costi, a razionalizzare e semplificare, lui inseguiva il suo intuito e gli stimoli che potevano fornire una conchiglia, una foglia e un osso. Allora la panchina che segue la linea dell’onda sull’arenile, il pilastro inclinato con la pietra che si avvita intorno ad esso, i materiali rigidi e pesanti che si modellano come se fossero morbidi e pastosi. Tra i disegni o i modelli di Gaudí e le opere realizzate la distanza è notevole. Erano appunti, punti di partenza di un processo creativo che per la massima parte era assegnato alla costruzione, alla genesi materica delle parti e del tutto. Il progetto non cercava minimamente di disaggregare la complessità. Si limitava a evocarla.
I contemporanei di Gaudì al di fuori di Barcellona e il Movimento Moderno hanno preso le distanze dal fenomeno relegando parco e cappella Güell tra le curiosità del folclore locale. Recentemente il suo esempio trova un numero di simpatizzanti e discepoli in continua crescita. Sto parlando delle esperienze di autocostruzione che in tutto il mondo rivendicano un diverso rapporto con la natura e con il progetto.

Quando prendi i contenitori alimentari per produrre gusci continui nervati destinati ad ospitare il mercatino scolastico di fine anno, oppure immergi degli scarti di tessuto nel cemento liquido per appenderlo a dei cavi tesi, entri in una logica ricca di implicazioni. Puoi fare le prove da solo, a casa tua, ma se l’oggetto deve raggiungere dimensioni abitabili devi lavorare in gruppo. La manualità di ognuno deve coordinarsi e interagire con quella degli altri. Il comportamento strutturale dell’oggetto cambierà con le dimensioni e dovrà trovare un suo punto di equilibrio finale. I materiali, o meglio le risorse rinnovabili, necessari alla costruzione, dovranno adattarsi alla manualità dei partecipanti e all’organizzazione dell’iniziativa. Insomma tra il punto di partenza ovvero l’intuizione, e il punto di arrivo ovvero l’opera, c’è la stretta integrazione tra progetto e costruzione. Più olistico di così è proprio difficile. Forse coloro che guardano l’esperienza di autocostruzione da fuori e da lontano, non capiscono quale emozione si possa provare. Ma quanti sono stati coinvolti direttamente o indirettamente nell’iniziativa hanno provato in prima persona l’entusiasmo del partecipare, la soddisfazione nel vedere il crescere e il concludersi dell’opera, la meraviglia per la leggerezza di strutture basate sulla tensione e tanto altro.

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