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22 mar 2014

Specchio, specchio delle mie brame ...

In tanti a domandarsi quali sono l’architetto e l’architettura più belli del reame. Poi vai a Londra e fai una foto. La riguardi dopo un po’ di tempo e non capisci se l’immagine riguarda la costruzione di Foster o le case ottocentesche che si specchiano nelle finestre romboidali e triangolari. In parte sembra che Foster si adorni o si appropri dello scenario circostante, in parte l’immagine riflessa annulla la tridimensionalità retrostante lo specchio. Forse una terza cosa. Come nel mito di Narciso, la magia dello specchio annulla identità, materia o dimensioni degli elementi coinvolti. Anche la superficie dell’acqua o del vetro che riflette diventa effimera e impalpabile. Resta solo l’immagine.
Così la superficie che riflette può diventare a sua volta riflessa, e la forma unitaria del soggetto può frantumarsi e decomporsi in un gioco di rimandi infiniti. Anche la suggestione dell’architettura che esplode (come in Zabriskie Point di Antonioni) entra nel gioco. Basta poca fantasia (e un algoritmo dinamico) perché l’architettura di Foster progressivamente si apra, si divida in pezzi che si ricompongono secondo i dettami delle avanguardie pittoriche del novecento. Dalla decomposizione alla frantumazione e all’esplosione. Poi nuovi inserti, nuove combinazioni. La dinamica si inverte e l’immagine riflessa torna a cercare la sua identità e integrità. Dal disordine emerge la piramide di Chefren in omaggio al principio che nella memoria le immagini si mescolano, restano distinte ma diventano intercambiabili.

6 mar 2014

Ornamenti, contaminazioni e razionalità

Dagli anni ’70 i teorici del postmoderno hanno sdoganato un approccio ludico e narcisista all’architettura (ovviamente condito con una sufficiente dose di auto-referenzialità). Il garante della post-modernità resta l’architetto chiamato a certificare i riferimenti pop, classici, ambientalisti o digitali.
E quando mancano tanto l’architetto quanto un progetto consapevole? Resta solo la tradizione e la sudditanza culturale oppure appaiono come d’incanto segni, espressioni, forme, soggetti?
Prendiamo, ad esempio, quattro immagini (procedendo in senso orario dall’alto a sinistra):
- il dipinto invitante nell’albergo ristorante al bordo di uno slum a Nairobi (Kenya),
- la nave sulla facciata in un villaggio rurale nei pressi della Valle dei Re a Luxor (Egitto),
- il ritratto di Maradona nel quartiere della Boca a Buenos Aires (Argentina),
- le scritte sul ponte bombardato a Mostar (Bosnia Erzegovina).


Difficile negare che a partire da luoghi e motivazioni così disparate resti riconoscibile l’intimo bisogno che accomuna il sottoproletario argentino e il contadino egiziano, il piccolo imprenditore keniota e il punk bosniaco. Tutti vogliono, o forse devono, riappropriarsi del proprio ambiente. Lo spazio circostante e gli oggetti persistenti debbono tornare a raccontare la storia e i sentimenti di chi li abita. Qualunque mediazione “progettuale” ostacola o inibisce queste modalità di espressione.
Oltre al punto di partenza anche il punto di arrivo della quattro realtà citate presenta per lo meno due elementi comuni. Innanzi tutto gli strumenti utilizzati sono gli stessi: il colore e il racconto. Rivestimenti policromi sono utilizzati anche nelle architetture pre e post moderne. Ma in Gaudi  o Venturi le decorazioni sono figlie del genio creativo e poste al servizio dell’architettura. La barca che evoca il mare in pieno deserto racconta un sogno, un desiderio del tutto indipendente (e forse antagonista) dalla casa sulla quale è dipinta. Anche gli avventori del ristorante evocano un confort poco assimilabile a una costruzione precaria.
Infine l’altro fattore, che rende le decorazioni non una manifestazione accessoria ma un dato di primaria importanza, riguarda le contaminazioni. Il dipinto e il collage possono assimilare linguaggi e suggerimenti estranei senza per questo mettere in discussione l’identità culturale dei singoli e delle collettività. La cosiddetta arte di strada nelle periferie più remote come nei centri metropolitani mescola senza pudore tutti i possibili linguaggi figurativi.

29 gen 2013

Un punto di vista sull’architettura e sul progetto

Mi hanno chiesto di fare un post sulla interpretazione “olistica” del progetto e dell’architettura. Il termine può sembrare ostico ma il concetto retrostante è semplice, quotidiano. Basta pensare al tramonto: un evento che si ripete tutti i giorni, in tutte le parti del mondo, ben spiegato dalla scienza. Eppure quando il cielo è limpido sul mare, lo spettacolo diventa emozionante il più delle volte. Un po’ di foschia può rovinarlo, le nubi nasconderlo, ma quando i colori prendono il sopravvento, io resto rapito. Le spiegazioni astronomiche e metereologiche dell’evento sono del tutto estranee e separate dall’emozione trasmessa. Gli antichi popoli del Mediterraneo credevano che la terra fosse ferma e che il sole le girasse intorno. L’emozione di un tramonto poteva essere la stessa di oggi. Conta la disposizione dell’animo di chi si pone di fronte al sole che si tuffa nel mare.

L’incontro con una architettura, anche se preparato dall’esame della documentazione fotografica, può risultare entusiasmante o deludente, confermare le attese o sorprenderci. Quando circa venti anni fa sono andato a visitare il palazzo di Frank Ghery a Praga (a volte chiamato Giger e Fred) mi sono trovato di fronte ad una realtà architettonica e urbana del tutto imprevista. Ciò che le pubblicazioni sull’opera non lasciavano intravvedere erano le relazioni con l’intorno.