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13 dic 2018

Albero di Natale che passione!

Ovvero idee dell'ultimo momento per non avere il solito triste albero.


L’albero di Natale è una prova da non sottovalutare. Lo sbirciano i vicini che ne intravedono l’intermittenza dalla finestra. Lo giudicano i parenti quando vengono a fare gli auguri. Determina i ricordi d’infanzia dei figli.  A Roma, l’anno scorso, si è rischiato l'impeachment per un albero di Natale... Per cui non prendete l’argomento sotto gamba.

 

Prima questione: vero o di plastica?

Mi spiace: nessuno dei due. Nel primo caso state utilizzando un albero vivo che qualcuno ha tagliato via dal suo ambiente naturale. Gli abeti hanno una vita molto più lunga della nostra e, anche solo per questo, vanno rispettati. Anche se coltivati appositamente per essere decorati a Natale, la voglia di tradizione non è sufficiente a giustificare né lo spreco di denaro legato al loro acquisto, né la loro morte.
Nel secondo caso, l’albero artificiale è almeno venti volte più inquinante di quello vero: il suo processo produttivo è molto energivoro e i materiali che vengono impiegati sono molto tossici (plastiche, vernici…). E poi è veramente triste!  
Quindi? Tocca ingegnarsi… 

Seconda questione: non ho alcuna idea.

Non è vero. Di esempi se ne vedono tanti, basta fare una ricerca a caso sul web, che ne so: “albero di Natale in cartone”. Ce ne sono di tutti i tipi, da comprare o da fare. Tra quelli da comprare a me è piaciuto questo firmato dall’azienda Reno de Medici, multinazionale italo-canadese che opera nel business della carta. E’ realizzato con il 100 % di fibre di cartone riciclato. E’ disponibile in più versioni e non necessita di decorazioni aggiuntive. Nonostante questo, alcuni modelli neutri, sono stati realizzati in modo che i bambini possano divertirsi con colori, collage e addobbi, proprio come avviene per quelli tradizionali.

       

Oppure provate da soli, potete usare il cartone degli scatoloni se avete appena fatto un trasloco, oppure vecchi rotoli (chiedete nelle copisterie o centri stampa, ne hanno tantissimi). Questo per esempio è stato realizzato utilizzando proprio dei tubi di cartone raccolti in una tipografia. Lo ha fatto Valeria Fazzi che, ogni anno, inventa alberi originali per il Bar-Ristorante-Albergo 64 Rooms di Enna. Valeria ha scelto i rotoli uno per uno. Molto bello il gioco con le diverse sezioni dei tubi, legati dal filo delle luminarie. All’interno di ogni tubo un oggetto o una decorazione.

Terza questione: non ho il tempo, mi serve qualcosa di più veloce.

Ok, mettiamola così: andate a fare una passeggiata in campagna, cercate un ramo morto, magari spezzato dall’ultima pioggia o vento, raccoglietelo e portatelo a casa (se uno non basta prendetene diversi da comporre insieme per ottenere la forma che meglio si addice ai vostri gusti e allo spazio che avete a disposizione).

Potete: lasciarlo del suo colore grigio naturale oppure colorarlo con una vernice a vostro piacimento (bianca, oro, argento, verde, rossa…), e poi decorarlo. Scegliete voi il tema: rosso e dorato; argento e verde; bianco e blu; arancio e oro; grigio inverno e rosa o viola o verde o tutte insieme. Aggiungete capelli d’angelo, ghirlande, lampadine a intermittenza e tutto quello che vi viene in mente.



Quarta questione: il gatto (o bimbo/a che gattona).

In tal caso optate per la bidimensionalità. Scegliete una parete della casa e disegnate il vostro albero. Utilizzate un filo di lana, oppure le lampadine ad intermittenza e disegnate la semplice forma dell’albero di Natale, poi aggiungete eventuali decorazioni. Oppure utilizzate i Washi Tapes, ce ne sono di tutti i tipi; o ancora la lavagna, il famoso cartone avanzato dal trasloco (ma questa volta ritagliato a dovere), i post-it, i cd vecchi che avreste dovuto buttare già cinque anni fa, etc…

Io ancora non l'ho fatto e credo che l'unica mia possibilità sia questa qui sotto: "L'albero degli stracci", un po' (alla Pistoletto) una denuncia al Natale consumistico!

Fonte delle fotografie: Web 

12 apr 2018

La casa per una generazione nomade come la nostra

La casa dove vivono i miei genitori è grande. L’hanno costruita negli anni risparmiando ogni lira (prima del 2000) e ogni centesimo (dopo il 2000). Ha quattro piani, perché noi siamo quattro figli. Ognuno sa dove andare a dormire quando, per brevi periodi, torniamo “a casa”. Per il resto dell’anno viviamo in quattro Stati diversi: tre europei e uno mediorientale. Non credo che i miei genitori abbiano mai pensato che noi saremmo rimasti a vivere con loro anzi, l’anno in cui io sono nata sapevano già che saremmo partiti tutti: prima per studiare e poi per lavorare. Il loro pensiero è sempre stato quello di costruire un luogo dove poter “tornare”, perchè anche se saremmo stati nomadi per tutta la vita “sapere dove tornare è fondamentale”.
A dire il vero non so se questo mi abbia aiutata. Intendo dire che forse, libera di andarmene non lo sono stata mai.
Ora vivo in un luogo che non sento mio ma la cosa sorprendente è che nessun luogo nel quale ho vissuto (né tantomeno quello da cui sono andata via circa venti anni fa) mi appartiene più. E ne soffro.

La casa non è una sola, in partenza da Catania per rientrare a Berlino - foto © Laura Tallarida 2015


Il paguro o anche detto granchio eremita porta con se la sua casa che cambierá mano a mano che  cresce - foto © Ludovica Rossi 2012 spiaggia in Sri Lanka

Quando io, a mia volta, sono diventata genitrice, ho pensato che la cosa che avrei voluto per mia figlia era che fosse veramente nomade. Nomade come chi rifiuta sostare in un territorio definitivo e percepisce tutto il mondo come un possibile luogo d’azione. E ne è felice. Nomade come chi trova nello spostamento continuo la condizione privilegiata per diffondere e mettere a frutto le proprie conoscenze, idee, capacità fisiche o intellettuali. E vuole vivere così. Ora, con molta probabilità, le mie figlie (che intanto sono diventate due) appena ne avranno la possibilità, vorranno tornare da dove sono partita io e non si vorranno muovere più. Eppure la società di oggi, quella “globale”, in cui loro sono nate e nella quale stanno crescendo, è una società estremamente nomade.
Nomade è il migrante che si sposta per necessità, lo scienziato che viaggia da un’università all’altra cercando un luogo favorevole alle proprie ricerche, l’uomo d’affari che si sposta tra una sede e l’altra dell’azienda in cui lavora, viaggiando da un continente all’altro. Ognuno di loro trascorre la propria esistenza senza legarsi ad un territorio determinato. Come i nomadi del passato, oggi ci si sposta continuamente allacciando relazioni sempre nuove e seguendo un destino indipendente da quello degli altri membri della famiglia di origine.
In quest’ottica la casa grande che i miei genitori hanno costruito non ha alcun senso ora e non lo avrà in futuro.

  
Stime dei  flussi migratori tra i primi 50 paesi di provenienza e destinazione (Fonte qui)
Pubblicitá casa mobile Hotel Amigo della FIAT 1981 (Fonte Pinterest)

La casa del futuro è un’abitazione piccola, facile da trasportare e autosufficiente per poter sostare ovunque nel mondo; senza allacci, permessi, fondazioni. La casa del futuro non è pensata per accumulare, è vuota: contiene al suo interno il minimo indispensabile e non da’ spazio al superfluo.

Leonardo Di Chiara, architetto di 27 anni laureatosi l’anno scorso, l’ha progettata. Ha costruito aVOID (un vuoto), dentro cui vivere e con cui spostarsi. Sono 9 mq, la dimensione minima di una stanza per gli standard edilizi. E’ concepita come un oggetto di alta tecnologia e design, anche se è tutt’ora in fase di sperimentazione, ma ha l’ambizione di diventare in tutto autosufficiente e piena di ogni confort. Perché se è vero che l’esistenza delle persone è proiettata verso l’esterno (sempre più mutevole e lontano), è anche vero che persiste l’esigenza di trovare alcuni vantaggi tipici della sedentarietà. Come essere sempre reperibili (spostando la propria residenza e il proprio domicilio nel luogo in cui di volta in volta, e per un tempo sempre variabile, ci si trova a vivere); o come lavorare, divertirsi, informarsi, stringere relazioni,...

      

   

Idea e fotografie della casa mobile aVOID - © Leonardo Di Chiara

Non avevo capito l’originalità del progetto aVOID finchè non ho incontrato Leonardo. Sentirlo parlare in maniera semplice del vivere nomade, vederlo pronto a immortalare con un selfie qualunque avvenimento in maniera così naturale ed elegante, mi ha fatto capire quanto per lui (13 anni più piccolo della sottoscritta) fosse del tutto normale vivere in questa società. Senza grandi conflitti interiori, senza rimpiangere una realtà che non esiste più.
Un architetto come lui, di questa generazione, non può avere alcun interesse a restaurare la casa della nonna, la sua esigenza è quella di costruire un’abitazione su ruote per vivere nel mondo. Attenzione, non una casa su ruote per fuggire da una società vista come  inattendibile e perversa,  al contrario: una casa su ruote per vivere come la società attuale ci chiede di vivere.
In effetti a ben guardare la casa che Leonardo ha progettato (da un punto di vista architettonico e tecnologico) non è nulla di trascendentale. Molto prima di lui, generazioni di persone mosse da un senso profondo di straniamento, disagio e dolore per la loro condizione di vita (persone imprigionate nella routine quotidiana di casa-lavoro, lavoro-casa), avevano già autocostruito abitazioni del genere (TinyHause) con il desiderio di lasciarsi alle spalle la propria carriera, e andare alla ricerca del  senso “vero” della vita.

Molti di loro pensavano che questa verità si risolvesse con l’equazione:
verità = bellezza = natura= solitudine.

 
 Copertiona del film Into the Wild (fonte Wikipedia
La casa aVOID Tiny House in viaggio da Berlino a Roma © Leonardo Di Chiara

Pensate al grandioso film di  Seann Penn  “Into the Wild”. Un giovane ragazzo, appena laureato, va alla ricerca della felicità; fugge dalla società, rinuncia al rapporto con gli altri. Si spinge all’estremo per capire infine che la felicità non è nulla, se non c’è nessuno con cui condividerla. E ora riflettiamoci su. Per quanto la società attuale possa non piacerci,  è possibile vivere in questo mondo globale senza arrivare alla simmetrica e solitaria opposizione, al “gran rifiuto” e alla tragica ed eroica rinuncia al legame di cui è protagonista e martire il giovane Supertramp?
Leonardo, e verosimilmente chi si laurea oggi come lui, sostiene che la risposta sia nella vita nomade contemporanea. Con la sua casa lui intende costruire una nuova società, una nuova rete di persone che insieme possono dare un’identità e un senso positivo a questa società globale e liquida. Leonardo sostiene che pensare alla casa grande e stazionaria non ha più senso, così come non ha senso immaginarsi da soli immersi nella natura. In un periodo come questo, l’unica possibilità è quella di creare nuove relazioni, di aggiungere valore alle città sedentarie che si sforzano di restare immutevoli quando ormai nulla può rimanere tale. E’ abitare temporaneamente gli spazi vuoti delle città per portare nuove relazioni, nuove culture, informazioni, in maniera non solo virtuale ma anche fisica. Se Leonardo avesse ragione, e questo nomadismo diventasse la forma naturale del vivere dell’uomo, sarebbe estremamente interessante capire come  cambierà la struttura territoriale delle città e, ancor prima, come sarà necessario ripensare alla struttura statale degli ordinamenti vigenti.

Certo, in questo continuo e quanto mai naturale migrare, la chiusura ottusa dei confini tra gli Stati risuona ancora più insensata, triste e crudele.



Fotografia dell'interno e schizzo del concetto di aVOID Tiny House - © Leonardo Di Chiara


Pagina ufficiale Leonardo Di Chaiara, progetto aVOID: qui
Articoli relazionati:
Maggiori dettagli sull'analisi dei flussi migratori Wittgenstein Centre for Demography and Global Human Capital tra il 2005 e il 2010: qui

Bibliografia: "Globalizzazione e Nomadismo" di Fabio Macioce, Centro Studi TCRS
                      "L'uomo Nomade" di Jacques Attili, Spirali, Milano 2006




25 nov 2017

Los colores de las emociones


Ejercicio de mindfulness (atención plena) para visualizar nuestras emociones. Realizado en el ambito del Máster Universitario para la formación de profesores de E.S.O., Bachillerato y F.P. está pensado para que niños y jovenes puedan tomar conciencia de su estado emocional y como este incide en nuestro comportamiento de cada día, pero sin dudas es también aconsjado para adultos ¡Esperamos que lo disfrutéis!



Aprendizaje y enseñanza de Dibujo Artistico
UNIVERSIDAD VIU

un especial agradecimiento a Andrea Pontara

18 mag 2015

Settore operativo euroasiatico, area iberica, anno di riferimento locale: 2015. Primavera. Girona. Ovvero: “Siamo ancora qua”!


Ci sono gesti che non si dimenticano mai, gli anni possono passare senza darti la possibilità di rifarli, ma quando ti vengono richiesti, sei capace di rifarli come se, dall’ultima volta invece che anni fossero passati minuti o, al più, giorni. Uno di questi gesti, pare sia l’andare in bicicletta: una volta imparato non lo dimentichi più. Un’altro è, di sicuro, il movimento che fanno le mani che aprono un tensore.
Ci sono sensazioni che non si dimenticano mai, e possono passare anni prima di riviverle, ma poi ti ritrovi con il naso all’insù a disegnare con il dito una linea invisibile nello spazio di cielo tra i rami, proprio come se stessi continuando il disegno che anni prima facevi in un altro cielo.
E ci sono persone che non potrai mai dimenticare e che per fortuna decidi di rincontrare. Possono essere cresciute (anche di numero, intendo), ingrassate o dimagrite, ma le ritrovi sempre, e sempre con tutte loro sarai capace di parlare di cose anche molto complesse, passate, presenti e future,  tanto più che il vino bianco disseta e scioglie la lingua.
Ci sono gesti, ci sono sensazioni, ci sono persone...
E c’è un gruppo che sperimenta nuovi modi di fare: l’architettura è il nostro linguaggio, la sostenibilità l’interesse che ci accomuna.


10 nov 2014

I TRE PORCELLINI E IL LUPO - rivisti e corretti





In prossimità di un bosco vivevano tre porcellini che, per mettersi al sicuro da un certo lupo feroce che abitava nei paragi, avevano deciso di costruire tre case.


Il primo porcellino si procurò calce e mattoni e iniziò a costruire la propria casa. Lavorò duramente e per molto tempo perché si sa, lavorare con la calce e i mattoni è tutt’altro che facile. Ma era un porcellino volenteroso e aveva un sogno: costruirsi una gran bella casa. Perciò, ben presto, riuscì a finirla.
Un giorno però, rientrando dal mercato, ebbe una brutta sorpresa: accanto alla sua casa c’erano delle ruspe…


E sì, la paura del lupo era stata tale e tanta che il porcellino aveva dimenticato di controllare se lì, in prossimità del bosco, poteva essere costruita una casa in calce e mattoni di quelle dimensioni. Il povero porcellino non poté molto contro l’ordinanza e, tutto sconsolato, se ne partì per andare a trovare il secondo porcellino.
Aveva saputo che lui, più attento a certi regolamenti, aveva costruito una casa in legno. Non era di certo così grande come la sua, ma sicuramente non gli avrebbe negato ospitalità. La casa del secondo porcellino ricordava un po’ i vecchi rifugi di montagna: era tutta costruita in legno, in ogni sua parte.


Ma quale non fu la sua sorpresa quando, arrivato in prossimità della casa di legno, vi trovò suo fratello tutto intento a verniciare e chiodare tavole.
“Ciao fratellino, ma ancora non hai finito di costruire la tua casa?” chiese il primo porcellino al secondo.
“Ma sì che ho finito” gli rispose quello, “solo che la neve questo inverno è stata tanta, il gelo ha rovinato le tavole ed ora mi ritrovo a dover risistemare tutto!”
“Oh fratello, almeno tu hai ancora una casa, non sai cosa è successo a me…” e il primo porcellino gli raccontò la sua triste avventura.
La mattina dopo i due fratelli si alzarono di buon’ora: avevo deciso di andare a trovare il loro terzo fratello. Avrebbero dovuto camminare un po’ perché lui aveva deciso di costruire la casa un po’ più in là, quasi dentro il bosco. “Mi piacerebbe costruire una casa senza chiodi né viti, proprio come quella dei castori” aveva detto.
Arrivarono a casa del terzo porcellino che era quasi tramontato il sole. Bussarono e il terzo porcellino andò ad aprire la porta. Ovviamente dopo aver chiesto “chi era”: sapeva bene che da quelle parti c’era il lupo…
Si sentì felice quando riconobbe la voce dei due fratelli e fu ben contento di ospitarli, gli offrì un bel tè caldo e cominciarono a chiacchierare.


“Ma non hai paura del lupo?” gli chiese ad un tratto il primo porcellino, che da quando era entrato non faceva altro che osservare la casa tutta costruita con rami, foglie e fango.
“Certo che ho paura del lupo” gli rispose, “per questo ho costruito così la mia casa. Ho pensato: se la casa dei castori resiste alle correnti dei fiumi, agli orsi, alle linci, vuoi che non resista al lupo?”



3 giu 2014

Pak, Brik, Evero …sono tutti cugini! Ovvero una piccola storia tra geometria e packaging.




“Comincio dall’inizio” disse la scatola.
“Il mio bis bis bis nonno nacque tanti anni fa nel Nord d’Europa: in Svezia. Ma non era alto e snello come sono da quelle parti anzi, era basso, un po’ triangolare e con la testa a punta, sembrava quasi una piramide e per questo tutti lo chiamavano Tetraedro. A lui piacque così tanto questo nome che decise che si sarebbe fatto chiamare Tetra.”


Caterina guardava la scatola, non aveva capito quel nome così difficile “Tretra…”, no era “tetradreo”..no non era neanche così… “Insomma”, pensava, “non ho capito, ma so che cos’è una piramide!” e allora, Caterina, cominciò a pensare ad una scatola a forma di piramide.
“Le altre scatole lo prendevano un po’ in giro” disse la scatola “ perché la forma che aveva era proprio strana. E tutte pensavano che sarebbe stato presto gettato via. Ma invece, nel vederlo, più d’una persona si emozionò. Tutti stavano intorno a lui ed erano tutti interessatissimi. Cominciarono subito a volerlo tenere, a giocarci un po’, a girarselo tra le mani. Oltre alla forma trovavano molto interessante il vestito che indossava. Era un abito particolare, fatto di tanti strati”. 


Caterina pensava a tutti gli strati di vestiti che in inverno doveva mettere: la canottiera e poi la maglietta e poi la camicia e poi il maglione e poi le calze lunghe e poi i pantaloni e poi la giacca, sapeva anche che in Svezia era più freddo:
“Chissà quanti strati aveva tuo nonno?!” pensò ad alta voce Caterina.

1 giu 2014

Una scatola di cognome Tetra


Un giorno accadde che una bambina, mentre passeggiava per strada, sentì qualcuno lamentarsi. La bambina si fermò cercando di capire da dove proveniva quel lamento. Per strada non c’era nessuno, si vedeva solo uno spazzino tutto indaffarato a raccogliere le cicche di sigaretta, le cartacce e le foglie per terra; ma era ancora molto lontano non poteva essere lui a lamentarsi. Alzò lo sguardo: le finestre che davano sul marciapiede erano chiuse, e non c’era neanche un albero sopra il quale qualche gatto poteva essersi arrampicato per poi piangere, perché non riusciva più a scendere! E le nuvole?! Si sa, non si lamentano mai, al massimo litigano un po’ fra di loro ma quando questo accade, fanno un gran fracasso!
Insomma, chi era che si lamentava?
“Forse ho sentito male” pensò la bambina e ricominciò a camminare ma ecco che sentì di nuovo una vocina che le disse: ”Ehi, sono qua…sono per terra!” La bimba abbassò lo sguardo e trovò una scatola, un po’ ammaccata, sporca, con un vago colore arancione.
“Ma le scatole non parlano” disse la bimba chinandosi verso di lei. 
“Sì, è vero, le scatole non parlano, ma io sono una scatola diversa dalle altre”.
“E che ci fai qui, per terra…non lo sai che è vietato stare sui marciapiedi?”
“ Sì, ma è stato un bimbo, alto come te, che mi ha buttata. Ha bevuto tuuutto il succo di frutta e poi mi ha gettata.”
“ E perché sei tutta schiacciata?”
“ Perché mi hanno calpestata e anche se urlavo nessuno mi sentiva. Ora, ho visto che sta per passare uno spazzino e sicuramente mi getterà via, ma io non voglio…per favore portami con te!”