10 set 2013

Ricostruire L’Aquila


"Quel particolare stato d'animo in cui il vuoto diviene eloquente, in cui la catena dei gesti quotidiani viene interrotta e il cuore cerca invano l'anello che lo ricongiunga"
(Albert Camus)
La notte del 6 aprile L’Aquila ha conosciuto l’assurdo, il non senso della vita, la vanità del futuro.

Una città puntellata
E’ così che appare L’Aquila, oggi.
Non so se a qualcuno di voi è mai capitato di vedere un set cinematografico. Una scenografia che ripropone un interno di una casa o le facciate di un intero paese, magari di una piazza.
Le pareti sono formate da pannelli di poliestere e cartone, tutto è ben disegnato: le finestre, le pietre dei muri, i portoni, le persiane in legno… Quando si è in mezzo alla piazza, se non si tocca nulla, sembra di stare in un vero paese (anzi, forse l’hai visto questo paese, in qualche brochure che pubblicizza piccole gite). Anche se in quel momento non ci sono attori che recitano e tutto è deserto, non si fatica ad immaginare un gruppo di ragazzi seduto accanto alla fontana, qualcuno che si abbraccia davanti al portone, dei turisti che fotografano…
Poi, man mano che ci si avvicina alle pareti delle case si cominciano a percepire i disegni. Quando si guarda dietro la parete, si vede il vuoto. La casa non esiste, solo il pannello che si regge grazie alla struttura di puntellamento ben messa dietro.
Quando dopo quasi due anni dal terremoto, mi sono trovata a passeggiare per alcune vie di quella che fu chiamata “zona rossa” subito dopo il 6 Aprile 2009 a L’Aquila, l’immagine delle scenografie viste alcuni anni prima mi è tornata alla memoria. Solo che qui era il contrario. Non erano dei semplici pannelli con dietro un’ impalcatura, ma erano (e, ahimè, lo sono ancora), dei volumi di palazzi, pieni di camere, scale, soffitti veri, completamente incapsulati all’interno di strutture di puntellamento. E anche se dentro questi palazzi non ci si poteva e può entrare, non si fatica a pensare che lì dentro, c’erano uffici, famiglie, gente a lavoro… anche se adesso è ancora tutto disabitato. A passeggiare per queste strade sale l’amaro in bocca. Ci sono anche gruppi di scuole, venute a vedere questo capolavoro di strutture provvisionali. Ma la città non c’è, non esiste più.


Un nuovo paesaggio: le frazioni e i paesi intorno a L’Aquila.
E’ per questo che l’Aquila è stata più volte definita un cratere e, intorno al cratere, sono cresciuti (o forse sarebbe meglio dire, sono stati piantati) nuovi centri di case.
I campi aperti che, fino a 4 anni fa, dividevano la città dalle frazioni e dai piccoli comuni adiacenti, sono tutti costruiti. Al loro posto schiere di case nuove, colorate, di legno o fresche d’intonaco, tutte piazzate su una robusta piattaforma in cemento armato. Intorno solo strade, una volta dritte e ora interrotte da continue rotonde, realizzate per cercare di rendere più snello il traffico delle auto dei nuovi residenti. Nel fine settimana o nelle giornate di festa, qualcuno prova a passeggiare lungo queste strade. Le persone escono dalle loro case perfette (che qualcun altro ha voluto e ha confezionato per loro), e passeggiano. Non vanno in un luogo preciso, non conoscono bene il territorio che li ospita, si passeggia e basta. Il centro del paese più vicino è comunque lontano per arrivarci senza un’auto, ma quella già intasa le strade durante tutta la settimana. 

La politica del noi
In questo quadro ancora incerto della politica di ricostruzione della città dell’Aquila, che ha minacciato e calpestato un’intera comunità, sono nati comitati, associazioni, sono rinati artigiani e contadini, nuove e vecchie produzioni, sono stati costruiti nuovi villaggi ma soprattutto, nuove maniere di vivere.
Queste organizzazioni e comitati hanno promosso nuovi tipi di comportamento volti a cercare soluzioni comunitarie a problemi economici, sociali e di crescita.
Tutti i comitati nati dopo il terremoto di L’Aquila sono aspetti diversi di un’unica comunità che ha deciso di vivere la ri-costruzione, che ha deciso di essere libera di scegliere, prendere parola e agire.
Basti pensare all’esperienza di Eva, l’ecovillaggio autocostruito a Pescomaggiore (http://www.pescomaggiore.org/) : “Si tratta di una risposta sostenibile all’esigenza di ricostruzione, oltre che una occasione di vera e propria rinascita, anche in senso sociale e turistico, del borgo abruzzese”; alle tante iniziative promosse dal Comitato 3e32 (http://www.3e32.org/) : “ La scritta “Yes we camp” sulla collina di Roio durante il G8, la rivolta delle carriole, e le grandi manifestazioni del 16 Giugno 2010 a L’Aquila, del 7 Luglio 2010 a Roma e del 20 Novembre 2010 a L’Aquila sono solo alcune delle attività a cui abbiamo lavorato da protagonisti per ottenere il 100% di ricostruzione, di informazione e partecipazione. In poche parole ciò che ci viene negato e che invece ci spetta di diritto.”;  al progetto di Sbarco G.A.S. del 2001 (http://www.smarketing.it/lavoro/sbarco-gas-laquila/) (e queste sono solo poche delle iniziative promosse e solo alcune delle associazioni che stanno muovendo dal basso il territorio abruzzese ).
Nelle vecchie frazioni sono nati comitati che si sono saputi misurare nell’ospitalità verso i nuovi abitanti, nella riscoperta del proprio territorio e dei suoi prodotti.

Il mercato e la riscoperta di un territorio
La prima volta che a Cese di Preturo è stato organizzato il mercatino era l’8 dicembre del 2010. I nuovi residenti che erano stati trapiantati in questa piccola frazione, erano ancora confusi dalla loro nuova identità. Le case del progetto C.A.S.E. erano ancora nuove e i piccoli alberi piantati tra i fabbricati stentavano a crescere.
Per due giorni il mercato voluto e promosso dal Comitato Osservatorio Nord Ovest (http://www.osservatorionordovest.org/) e dal Gruppo G.A.S. di L’Aquila (http://laquilaintransizione.wordpress.com/2009/02/18/gas-gruppo-di-acquisto-solidale-a-laquila/)  ha riempito di colori e rumori l’enorme parcheggio, spesso deserto, che si trova vicino alle nuove piattaforme di appartamenti. Le persone (abitanti vecchi e nuovi di Cese) si sono incontrate per la prima volta davanti ai banchi di frutta: (ri)scoprendo profumi e gioie di un territorio fertile; si sono fermate davanti ad un cesto di zafferano: (ri)scoprendo la tradizione e la cultura di un luogo; hanno sostato davanti ai legumi e alle farine: (ri)scoprendo la dignità di una città che varie volte si è risollevata; hanno chiacchierato davanti ad un ricamo: pensando che tutto sommato la fantasia e la voglia di fare è nelle mani di molti.
Tutto questo è avvenuto, parlando, confrontandosi, ricordando e scambiando informazioni ed esperienze.
Il mercato “Dalla Terra al Territorio”, che da allora è diventato un appuntamento fisso, offre uno strumento molto potente di esempio di ri-costruzione. Una ricostruzione che basa i propri principi su beni non monetizzabili e che non risponde ad una logica di tornaconto economico e politico ma a dei principi quali: l’ospitalità, l’ecologia, l’etica e la riscoperta della propria identità.



Strutture mobili appropriate
Progettare i banchi espositivi del mercato “Dalla Terra al Territorio” vuol dire, in primo luogo, recepire tutta questa ricchezza culturale e umana, e tradurla in una nuova organizzazione dello spazio che contribuisca a promuovere i rapporti tra le persone.
Il banco espositivo, che Equalogical Lab ha progettato per il mercato di Cese, è un testo che racconta attraverso la sua leggerezza, la trasparenza dei rapporti (tra produttore e consumatore, tra i cittadini “vecchi” e “nuovi”); che racconta attraverso l’uso misurato dei materiali con cui è costruito, la sostenibilità ambientale; che racconta attraverso il suo montaggio e smontaggio le persone che si riuniscono, che discutono e che si confrontano, scoprendo una nuova dimensione spaziale e culturale che li accomuna.
La realizzazione dei banchi espositivi racconta una nuova ricostruzione che rivaluta le presenze temporanee come motore del processo evolutivo, suggerisce nuove letture, nuovi rapporti con la città.



Il workshop di autocostruzione e una coscienza “responsabile”
Il Comitato Osservatorio Nord Ovest e il laboratorio di architettura sperimentale, Equalogical Lab, organizzano un Workshop di autocostruzione TensiStand (3- 6 ottobre 2013) diretto a tutti quelli che sono interessati a conoscere tecnologie nuove o migliorate, strumenti e concetti per produrre benessere, impiegando una  bassa quantità di risorse.  
Minimizzare il bisogno di risorse, utilizzare materiali e/o sostanze naturali, prolungare la durata di vita degli oggetti, ridisegnare i cicli produttivi, sono i principi che accomunano l’agricoltura e la progettazione eco-efficiente.
Costruire insieme i nuovi stand usando il sistema strutturale integro-teso (tensegrity) vuol dire affrontare ogni singolo obiettivo comune.

“Se la produzione si orienta alla minimizzazione degli impatti, è il contesto ad orientare le scelte e non l’efficienza economica. Se la pressione antropica deve essere ridotta entro la capacità di sopportazione del sistema, le preferenze individuali perdono di importanza a favore di una armonizzazione complessiva delle esigenze. Naturalmente su questo c’è molto da sperimentare vista la rigidità dei modelli d’intervento suggeriti dalla produzione corrente”. (Piergiorgio Rossi - “Architettura vs ambiente”).

Potete Trovare tutte le info sul Workshop cliccando sul link 

1 commento:

  1. Anch'io ho visitato il centro storico de L’Aquila in un pomeriggio dei primi di agosto. Il caldo, il silenzio, uno scenario surreale. I muri pieni di crepe tenuti in piedi da imbragature di metallo. Mi sono posto una domanda stupida, che forse gli Aquilani possono ritenere offensiva. Eppure la questione esiste.
    Come dice il post dopo 4 anni la ricostruzione del centro storico praticamente deve ancora cominciare. Sono state realizzate sovrastrutture che tengono le murature in sicurezza, le sostengono, ma non restituiscono l’abitabilità a palazzi e chiese. Queste sovrastrutture dovranno essere rimosse perché il centro ritrovi vita.
    Ciò che ora è caduco dovrà tornare ad essere stabile e resistente, ciò che oggi offre sicurezza scomparirà. Magari la città sembrerà come quella di prima, ne avrà ereditato l’immagine, ma ovviamente non sarà più la stessa. Le ferite non saranno più in vista ma segneranno indelebilmente la memoria.
    La forma, la pelle degli edifici ha il compito di restituire continuità alla storia de L’Aquila, non le strutture, le murature le pietre o i mattoni che sono crollati per la violenza della natura e l’insipienza costruttiva degli uomini. E allora la domanda che mi pongo: se è la memoria ad essere permanente perché continuiamo a cercare l’eternità nelle pietre o nelle strutture che crollano? Se sono valori culturali a dare l’identità a un luogo e alle persone perché abbiamo bisogno di pietrificare questi stessi valori in simboli che non riescono a garantire l’eternità?

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