27 nov 2012

Argentina - Anno 2006


(Dedicato ad EqualogicaLab) 

Queste sono alcune righe che per caso ho ritrovato ieri sera in un vecchio quaderno. Raccontano il mio primo viaggio in Argentina. Le trascrivo così come le ho trovate, anche perché alcune cose non le ricordo più e non sarei in grado di raccontarle diversamente.
Sono righe che risalgono al 2006 e la situazione in Argentina e in Europa era diversa e sono righe scritte da una persona sei anni più giovane con sei anni di esperienza in meno, nata e cresciuta nel nord del mondo ed entusiasta di un viaggio lungo e della piccola creatura costruita.
Le foto, invece, raccontano il ricordo della stessa storia.


"Ora vi racconto la storia di una parte di mondo dove tutto funziona al contrario, per cui capita di vedere la luna con la gobba in giù e Orione con i piedi in su.
Di una parte di mondo dove le contraddizioni sono molte e succede che un quartiere povero è coloratissimo e uno ricco è grigio e triste.
Vi racconto la storia di un Paese dove è possibile arrivare sulle nuvole senza staccare i piedi da terra. Dove le montagne hanno sette colori e il cielo è di un unico blu intenso. Dove la gente è cordiale, dagli occhi ricchi di ricordi e sofferenze. Dove le tradizioni si mescolano senza lasciare spazio a nulla di autentico ma dando una nuova autenticità a tutto.
Vi racconto la storia di un luogo dove la povertà si vede in ogni cosa, si respira, si tocca ma non si capisce, perché in realtà è un luogo molto ricco. Un luogo come l’Argentina anzi, una parte di Argentina.



Parlo di città divise in “quadras”. Ogni quadras è costruita da case una affianco all’altra. Case ricche, con giardini e ben tenute, accanto a case di lamiere con muri rovinati. Strade enormi percorse da automobili che in vita tua non hai mai visto perché quando venivano costruite non eri ancora nato e ora li guardi e ti chiedi: “come diavolo fanno a camminare?!”. E la sera vedi gruppi di persone che cercano di ripararle, ancora una volta.
Parlo di quella Buenos Aires dove il Boca Junior non è solo una squadra di calcio ma è la rivincita di un popolo di immigrati che ha lasciato ogni cosa, sperando in una nuova vita e, ora, non si sentono né cittadini argentini né cittadini italiani ma, fieri, ti raccontano che i loro figli hanno la doppia nazionalità.
Parlo di Buenos Aires, dove ancora ogni giovedì sfilano le mamme a Plaza de Majo, con le foto dei propri figli sul cuore, con i fazzoletti in testa e il passo lento. Ogni passo racconta il loro dolore e il loro desiderio di non rimanere ancora sole e di far vivere i propri figli finché loro ci saranno e finché rimane spazio nella memoria delle persone. 


Parlo di paesi dove ancora è possibile vedere tracce di indios nei volti delle persone, dove è possibile incontrare donne che sul ciglio della strada lavorano la lana per fare un ponchio. Parlo di un paese come Salta, al confine tra Cile e Bolivia, dove ancora sono vive le tradizioni coloniali mischiate alle credenze indios, e ti capita di entrare in una Chiesa e leggere, sopra a la vasca che contiene “Acqua Santa”, che non bisogna usarla per magie o malocchi, perché Dio non vuole!!


Parlo di villaggi dove ti capita di incontrare case costruite con intrecci di piante e fango, abitati da donne che portano i bambini sulle spalle, mentre gli uomini sono al pascolo con cavalli e lama. Dove si masticano foglie di coca per combattere fame, sete, freddo e per cercare di ingannare il proprio corpo, facendogli credere che non si è a 4.000 metri di altitudine. Luoghi dove i cactus sono giganti, la terra rocciosa e le montagne vanno dal verde al rosso, passando per il viola e il rosa e ti capita di finire in un deserto bianco di sale, dove uomini completamente coperti per non lasciare la pelle al sale e al sole accecante, scavano vasche quadrate, fermandosi solo quando incontrano l’acqua.


Parlo di viaggi che durano anche 20 ore in autobus che collegano tutta l’Argentina, perché qui i treni sono fermi da quando gli Spagnoli se ne sono andati.
Parlo di Mendoza, nata per forza, nonostante ci fosse il deserto. Costretta dalla sistemazione di alberi e corsi d’acqua a dover nascere e vivere e ora, come tutti quelli nati per forza, si lascia morire da inquinamento, politica e urbanizzazione, nascondendo la testa nei “Barrios”. Eppure è una bella città, dove non puoi sentirti straniero e dove dopo due giorni conosci tutti e con tutti bevi il mate. Dove ti invitano all’”asado” e per due giorni ti ritrovi a mangiare carne, parlando con calma, come se davanti a te avessi più di una vita a disposizione.


Qui, tutto si fa con calma e sono più le ore che passi a riposare che quelle in cui si lavora. Qui tutto è disorganizzato, arrivi per lavorare e scopri che ancora non si può fare nulla perché mancano i materiali, gli strumenti e le persone con cui lavorare. E fai uno sforzo enorme cercando di allacciare più rapporti possibili con la speranza che alla fine qualcosa viene fuori.
Questo è il luogo dove ti capita di incontrare uno sconosciuto che ha più ricordi di te su tuo nonno e ti cambia una domenica raccontandoti la stima e l’affetto che dopo tanti anni ancora prova verso “lo zio Santo”
Questo è un posto in cui tutti si sentono europei e nessuno statunitense. Dove si offendono se invece di dire Stati Uniti dici America ma dove tutti bevono Coca-Cola.
E’ il Paese di cui alla fine, tutto sommato, ti innamori, perché alla fine, tutto sommato, loro le cose riescono a farle e a godersele con la semplicità di chi ha poche cose.


A distanza di anni ripenso a quella esperienza: è stato bello condividere la nostra piccola costruzione, piccola nelle dimensioni, grandissima nelle ambizioni! 




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